OLIO DI OLIVA - L'ORO DEL MEDITERRANEO
La struttura agricola della penisola, basata principalmente sui latifondi coltivati a cereali, entrò in crisi. I Romani decisero allora di convertire le proprie coltivazioni alla produzione di olio e vino. Gli antichi dicevano che il Mediterraneo comincia e finisce là dove è possibile la coltura dell’ulivo, un’area considerata ben distinta dalle province fredde e umide del nord e dalle zone desertiche e aride del sud. «Olea prima omnium arborum est» (fra tutti gli alberi il primo posto spetta all’ulivo), diceva Columella (4 - 70 d.C.), autore di un trattato sull’agricoltura. Plinio li considerava graditissimi al corpo umano: il vino per l’interno, l’olio per l’esterno.
L’olio di oliva aveva molti utilizzi: mescolato con le erbe aromatiche, ne assorbiva gli odori e diventava un unguento profumato, impiegato per la cura della pelle e per i massaggi; nei rituali religiosi a scopo purificatorio, era adoperato per la preparazione delle salme alle cerimonie funebri; dalla morchia, ovvero il residuo di fondo, si ricavava un olio acido e scadente, usato per alimentare le lucerne, impregnando uno stoppino fatto di lino o papiro; spalmandolo sulla pelle, proteggeva dal freddo, riscaldando il corpo; in medicina, leniva i disturbi intestinali e di stomaco; come antipiretico, abbassava la febbre e curava ferite sanguinanti, ustioni e lacerazioni della pelle. Risulta che i ginnasiarchi (gli amministratori dei ginnasi) vendessero per scopi medici l’olio che gli atleti, finiti gli esercizi, raschiavano dal proprio corpo. Le olive solitamente aprivano e chiudevano il menu. Le più rinomate erano quelle provenienti dal Piceno e quelle dei Sedicini (Campania settentrionale, Teano). Gli oli migliori erano quelli provenienti da Venafro in Molise, profumati come balsamo, secondo Marziale, e pertanto utilizzati anche per confezionare fragranze; e dalla Liburnia, l’attuale costa istriano-dalmata, che Apicio in una ricetta insegnava a contraffare, usando olio spagnolo di minore qualità. Invece, quello del nord d’Africa era usato soprattutto per unguenti, cosmesi e illuminazione. L’olio dei Romani irrancidiva rapidamente ed era ricco di impurità; quindi il metodo migliore per averne sempre a disposizione di buono, era tenere da parte il più a lungo possibile le olive, così da poterle spremere sul momento per ricavarne prodotto fresco. Le olive destinate alla spremitura dovevano essere colte dall’albero ancora verdi, e conservate sott’olio anch’esse. I Romani furono grandi consumatori di olio. A Roma, ancora oggi, l’immenso traffico commerciale stimolato dal suo consumo è testimoniato nel quartiere Testaccio dalla presenza di milioni di cocci di anfore, accatastate pezzo su pezzo fino a formare un piccolo monte. Le anfore impregnate d’olio erano inutilizzabili, perché maleodoranti. Nacque così la prima raccolta differenziata e sistematica di rifiuti gestita direttamente dallo Stato. Le anfore che non trasportavano olio, venivano invece riutilizzate in vario modo: per drenare i terreni; nei campi di battaglia, i loro pezzi appuntiti e accuratamente interrati divenivano trappole per la cavalleria nemica; tagliate a metà, diventavano sepolcri o culle; infine, in edilizia, per riempire e alleggerire i muri e le volte o, frantumate finemente e impastate con la calce e battute, per formare il cocciopesto, materiale utilizzato come rivestimento impermeabile, che i Romani chiamavano opus signinum dalla città di Signia, l’odierna Segni, vicino Roma.
Tratto dal libro: "Passioni e divertimenti nella Roma Antica.
Fonti storiche:
Marziale, Epigrammi, libro XI, 31.
Columella, De re rustica, libro V, 8, 1.
Plinio il Vecchio, Naturalis historia, libro XIV, 29.
Pseudo Apollodoro, Biblioteca, libro III, 177
Plinio il Vecchio, Naturalis historia, libro XV, 5.
Marziale, Epigrammi, Xenia, 36.
Plinio il Vecchio, Naturalis historia, libro XV, 4.
Marziale, Epigrammi, Xenia, 101.
Apicio, De re coquinaria, libro I, IV.
Apicio, De re coquinaria libro I, XIV
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