Di Salvatore Sciarrino si sa che è un compositore famoso, il più rappresentato al mondo tra gli italiani. E poco altro. Riservato al limite della segretezza, è un solitario fuori da mode, correnti o ideologie. Un eretico della musica, un esploratore del suono e del silenzio votato alla ricerca più radicale, ora incoronata con il Leone d’oro alla carriera della Biennale Musica. Nato a Palermo nel ‘47, da oltre 30 anni vive in Umbria, a Città di Castello.
Un eremo verde da cui si stacca a malincuore per accompagnare le sue creazioni nei teatri del mondo. Prossima tappa il Comunale di Bologna. Dove dal 14 giugno sarà in scena, coprodotta con la Staatsoper di Berlino, regia di Jurgen Flimm, Marco Angius sul podio, l’opera sua più famosa Luci mie traditrici, scritta nel ’98, ispirata alla tragica vicenda di Gesualdo da Venosa, che in nome dell’onore fece massacrare sua moglie e l’amante di lei. Un’opera fortunata, 41 edizioni diverse, solo 5 in Italia. «Sì, Luci ha girato il mondo ma per me è ormai lontana. Come se non mi appartenesse più. Ormai inseguo altro» assicura Sciarrino.
Eppure quel groviglio sanguinoso di voluttà e delitto, lo perseguita. Per Ti vedo, ti sento, mi perdo,
l’opera commissionatagli dalla Scala per il 2017, di nuovo con la
Staatsoper e la regia di Flimm, lo spunto è un altro compositore
secentesco, Alessandro Stradella, trucidato con la sua amata dai sicari
di un geloso abbandonato. «Amore, morte, tradimento sono i motori del
teatro e della vita. In quelle di Gesualdo e di Stradella l’irrazionale e
l’eccezionale diventano normalità».
Storie efferate, non troppo diverse da tante di oggi.
«Come il ‘600 anche il nostro è un secolo cupo e crudele, segnato da
grandi scoperte scientifiche ma anche da disgregazione sociale e
miseria». La proposta per la Scala gli era arrivata dall’ex
sovrintendente Lissner. «Ma le date erano troppo strette, mi sono
rifiutato. Certo, potrei scrivere un’opera in tre mesi, ma non devo. Non
devi svenderti, devi avere il tempo per covare quello che ami. Oggi si
tende a fare troppo, perdere un’occasione non vuol dire niente, spesso
torna decuplicata». Difatti, a riaprirgli le porte del Piermarini è
arrivato Pereira. E Sciarrino è al lavoro. A ottobre il Leone d’oro.
Nella motivazione del premio, Ivan Fedele, compositore e direttore di
Biennale Musica, sottolinea come in Sciarrino «la musica diventi
esperienza di ascolto in cui lo spettatore è al centro di fenomeni
misteriosi e quasi ancestrali».
Perché allora la contemporanea resta appannaggio di pochi?
«È sempre stato così. Monteverdi era solo per aristocratici, Schubert
ha scritto dieci sinfonie e non ha potuto ascoltarne nemmeno una. Di
Mozart non sappiamo dove sono finiti i resti. Il pubblico non apprezza
la musica del suo tempo. La responsabilità è anche della scuola, ragiona
come un’azienda puntando solo sul rendimento. Ci sono nazioni che non
hanno mai tolto un soldo alla scuola, in Italia è la prima cosa che si
fa». Lui è fiero di essere un autodidatta. A 12 anni il primo brano, a
27 in cattedra al Conservatorio di Milano senza diploma, per «meriti
artistici». «Oggi non sarebbe più possibile, tutto è più farraginoso e
burocratico. Viviamo un’epoca di conservazione, dove un musicista
comincia a esser vivo quando muore».
Questo rende la sfida più interessante.
«Ho deciso di fare il compositore perché era un’impresa difficile. Un
mestiere da uomo dimezzato. Anche quando sto con gli altri c’è sempre
una parte di me che resta al tavolo di lavoro. Non ho famiglia, non
avrei potuto averla. Fino al 2007 ho resistito anche al telefonino, poi
ne sono diventato schiavo. L’antidoto sono i libri. Mi piace leggere e
ancor più rileggere». Ascolta musica? «Solo in compagnia, la musica va
condivisa. Da solo mai, è distraente. Coltivo la disciplina del
silenzio». Ma la musica rende migliori? «Non credo. A me però ha dato
maggiore logica. La musica apre la mente all’immaginazione, aiuta a
raggiungere i sogni». Corriere
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